La città delle ceramiche

Le conoscenze storiche sulla ceramica medievale e moderna di Caltagirone, al pari di quelle su gli altri centri isolani, si basano sulle ricerche, recenti, fatte nell'ambito della creazione del Museo della Ceramica, prima in seno alla locale Scuola di Ceramica e poi in sede propria sotto l'egida dello Stato e quindi della Regione Siciliana. Si deve proprio a questo museo se oggi vi è la possibilità di seguire, parallelamente alle conoscenze storiche, il processo evolutivo dei manufatti ceramici, non solo caltagironesi ma dell'intera isola. I dati archeologici acquisiti nelle campagne di scavi condotte da Paolo Orsi nel suolo caltagironese, confermano quanto incidentalmente scrisse il gesuita Giampaolo Chiarandà nella sua storia della città di Piazza Armerina. Lo scrittore, infatti, ammetteva che ivi l'arte della ceramica fosse stata anteriore alla venuta degli Arabi e che ivi fosse esercitata "da molti vasai". Non è quindi nuova, né infondata, la comune affermazione che i ceramisti arabi, sin dall'827, a seguito della conquista musulmana dell'isola, si siano tosto stabiliti in questo centro ed abbiano piuttosto dato impulso all'arte ceramica, facendovi brillare i procedimenti tecnici da loro portati dall'Oriente. In particolare, l'invetriatura che soppianta in Occidente ogni residua tecnica ereditata dal mondo classico. Le ragioni per cui la ceramica caltagironese ebbe nel Medioevo notevole impulso sono da ricercare non solo nella buona qualità delle argille, di cui abbonda la città ma anche nei vicini ed immensi boschi che alimentando e favorendo un'enorme sviluppo dell'industria del miele, con conseguente richiesta di recipienti per la conservazione, dall'altra fornivano la legna, per la cottura dei manufatti nei forni, ai numerosi ceramisti del luogo. Le quartare caltagironesi per contenere il miele erano note ovunque, al pari dell'industria del miele di cui parla il geografo arabo Edrisi. Esse sono citate anche negli inventari di beni lasciati in eredità, come quello del 1596 di D.Matteo Calascibetta, Barone di Costumino, abitante nella città di Piazza. Vaso in Ceramica di Caltagirone. Che, nel Medioevo, a Caltagirone il numero degli artigiani dediti all'industria del vasellame invetriato fosse rilevante è confermato dalla notizia fornitaci dal P.Francesco aprile di fornaci sepolte da una frana nel 1346 sul fianco occidentale del castello e dell'esistenza, ai primi del Cinquecento, di un intero rione di maiolicari - distinto da quello dei comuni vasai - a fianco della chiesa di San Giuliano e precisamente dove nel 1576 sorse la chiesa di Sant'Agata. Ivi la maestranza, abbandonata la lontana cappella della Madonna del Salterio o del Rosario nella Chiesa madre, si raccolse prima di passare, nel secolo XVII, alla confraternita dell'Immacolata, nel vicino convento di San Francesco d'Assisi dei PP. Conventuali. Si sa altresì che questa maestranza, fiera dell'arte che esercitava, offriva al protettore della città, San Giacomo, dei paliotti d'altare fregiati di uno stemma che rappresentava un vasaio al tornio. Sebbene dai documenti scritti e, principalmente dai Riveli, si rilevino molti nomi di ceramisti del Cinquecento con oltre cento officine di maiolicari attive, a causa del sisma del 1693, che sconvolse tutte le città della Sicilia orientale, sono pochissime le opere superstiti e soltanto il frammento di un bacile d'acquasantiera, conservato nel Museo Civico di Piazza Armerina, ci dà il nome dell'autore nella scritta che in esso si legge: "la fonti la fichi m. joanelu di maulichi", vale a dire "la fonte la fece maestro Jovannello Maurici". Questi apparteneva ad una grande famiglia di maiolicari che verso la fine del Cinquecento s'estese nella lontana Burgio, nell'agrigentino, propagandovi l'arte della maiolica attraverso Matteo Maurici, nipote di Joannello, seguito da un nutrito gruppo di altri maiolicari caltagironesi, fra cui Pietro e Francesco Gangarella, Giacomo Sperlinga, Antonio Merlo, Giuseppe Savia, Bartolomeo Dandone. Del Seicento si può dire altrettanto. Infatti, eccetto i significativi frammenti di pavimento datati 1621, opera di maestro Francesco Ragusa, e quelli dell'altro impiantito della seconda metà dello stesso secolo, del maestro Luciano Scarfia, rispettivamente conservati nelle chiese di Santa Maria di Gesù e dei Cappuccini (ed oggi al Museo Statale della Ceramica), il resto fu travolto dal terremoto dell'11 gennaio 1693, che cancellò nella parte orientale dell'isola quasi ogni traccia dell'attività plurisecolare delle officine ceramistiche caltagironesi. Con l'avvento del nuovo secolo (1700) si ebbero palesi segni di ripresa anche per l'arte ceramica, che rifiorì sotto nuovi indirizzi artistici; Vennero fuori gli ornati a motivi floreali, a grandi volute e a disegni continuativi. Dalle fornaci caltagironesi escono ora vasi con ornati a rilievo e dipinti, acquasantiere, lavabi, paliotti d'altare, statuette, decorazioni architettoniche di prospetti di chiese, campanili e case private, pavimenti con ornati a grandi disegni. Tanti maestri fanno splendere con la loro superba arte plastica e pittorica in ogni angolo di casa e di chiesa di Sicilia la maiolica caltagironese: sono i Polizzi, i Dragotta, i Branciforti, i Bertolone, i Blandini, i Ventimiglia, i Capoccia, i Di Bartolo e altri. Angelo o Michelangelo Mirasole, nativo d'Aragona (in provincia d'Agrigento), imparentato coi Lo Nobile, valenti ceramisti caltagironesi, realizza statue, mezzi busti e rivestimenti in maiolica come quello del Teatrino, ove collaborò pure il maiolicaro Ignazio Capoccia, autore dei più vasti pavimenti settecenteschi caltagironesi a grande disegno. Giacomo Bongiovanni (la cui nonna era sorella di Francesco ed Antonino Bertolone, abili maiolicari e plasticatori), tra la fine del secolo ed i primi del decenni del nuovo, ispirandosi alle opere del trapanese Giovanni Matera, anima le sue figurine di terracotta di pulsante vita paesana, seguito nell'arte dal valente nipote Giuseppe Vaccaro. Sulla scia di questi maestri altri s'incamminarono dando all'arte delle figurine notevole impulso artistico e grande notorietà anche lontano. Basta citare Francesco Bonanno il quale, oltre che all'arte del Bongiovanni, s'ispirò alle incisioni di Bartolomeo Pinelli, specie in quelle scene che ritraggono soggetti di briganti. L'Ottocento, con l'uso del cemento nei pavimenti, col dilagare di terraglie continentali, di produzione seriale sul mercato isolano, dà un fatale colpo alla ceramica caltagironese che inizia la sua parabola discendente continuando a dibattersi fra gli antichi procedimenti tradizionali di vetuste botteghe prettamente artigianali. Pure, in questo decadere, si ergono più alti i nomi di Giuseppe Di Bartolo, ceramista pittore e plasticatore, e di Enrico Vella, abilissimo modellatore e progettista che, assieme a Gioacchino Ali, fecero assurgere a grande dignità la decorazione architettonica in terracotta, lasciando eccellenti esempi che ornano oggi la città, come nel monumentale cimitero, opera dell'architetto G.B. Nicastro. Questi maestri furono gli ultimi bagliori della ceramica caltagironese e con la loro scomparsa, Caltagirone avrebbe cessato di essere annoverata fra le città produttrici di maioliche e terrecotte se non fosse sorta una Scuola di Ceramica per merito di don Luigi Sturzo. Questa, innestata sulla vecchia tradizione ceramista, la continuò aggiornandola ai tempi. Don Luigi Sturzo, raccolti gli ultimi rappresentanti di quella morente tradizione, fra cui il ceramista Gesualdo Di Bartolo, il figurinaio Giacomo Vaccaro ed il plasticatore Giuseppe Nicastro, aprì nel 1918, lottando contro remore ed incomprensioni, la Scuola di Ceramica, oggi divenuta Istituto Statale d'Arte per la Ceramica, a cui fanno capo le forze più rappresentative della rinnovata arte locale con fulgidi esempi di vitalità in realizzazioni di vasta portata, come quella del rivestimento maiolicato della monumentale Scalinata di Maria SS. del Monte in Caltagirone realizzata dalla Maioliche Artigianali Caltagironesi e che ha visto impegnati nell'esecuzione valenti allievi dell'Istituto come Gesualdo Aqueci, Francesco Judici, Gesualdo Vittorio Nicoletti e Nicolò Porcelli. Un filiazione diretta dell'Istituto può, a ragione, considerarsi il Museo Regionale della Ceramica, con un'eccezionale documentazione di cimeli ceramici d'ogni tempo, tra cui meritano particolare attenzione le documentazioni ceramiche medievali, araba, normanna, sveva, aragonese e la ricchissima serie di mattonelle cinquecentesche e settecentesche raccolte nel rifacimento di pavimenti di chiese dopo i disastri dell'ultima guerra.